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Benvenuti nel blog di Antonio e Roberto Tartaglione. Oltre a fotografare cerchiamo quando possibile di ragionare su argomenti che ci stanno a cuore.

Pugliagram

Polignano

4 diverse interpretazioni di Polignano a Mare (BA) realizzate da tre instagramers del gruppo negli stessi giorni (la settimana dal 17 al 22 maggio 2014)

Una bella iniziativa del gruppo Igerspuglia (coordinato da Marco Bottalico / @markettoz, Annarita Dipace / @__annina__ e Sara Meledandri / @_54r4_) ha portato in Puglia per una settimana 4 Istagramers provenienti da Russia e Turchia. Le quattro bloggers totalizzano quasi un milione di followers (987.000 per l’esattezza la scorsa settimana); a titolo di confronto la diffusione media del Corriere della Sera (cioè la somma tra il numero di copie vendute e quelle distribuite gratuitamente) è di circa 474.000 (fonte: Cadoinpiedi). Come ogni fotografo che si rispetti ognuna di loro ha stili fotografici completamente diversi, per cui pur visitando in gruppo le stesse località hanno condiviso scatti completamente diversi. Questa iniziativa ha portato istantaneamente immagini della nostra regione a persone che magari non avevano mai neanche sentito parlare di Polignano o Margherita di Savoia. Spesso nei commenti alle foto infatti le persone chiedono: “bellissimo ! dov’è ?”.  L’operazione mi sembra davvero efficace dal punto di vista della promozione turistica, anche rispetto ai costi contenuti dell’ospitalità alle bloggers. Istagram consente la condivisione immediata della foto con i propri followers, e successivamente l’allargamento della condivisione mediante i tags (ad esempio quello di questa operazione: #tellmeaboutpuglia). La foto viene visionata sul device mobile (smartphone, tablet) oppure sul monitor classico mediante il sito Instagram o quelli collegati. Ma vorrei fare qualche considerazione sullo specifico fotografico. Volendo usare gli occhiali di Roland Barthes potremmo divertirci ad analizzare Studium e Punctum nelle riprese pubblicate. Forse poche possibilità di sviluppare completamente uno Studium, anche a causa delle ridotte dimensioni del display e del rapporto segnale/disturbo sfavorevole per quanto riguarda le riprese in scarsa condizioni di luce….Questo aspetto (lo studium appunto) potrebbe invece riguardare sia i contenuti che aumentano la nostra conoscenza del mondo e del visibile (ed è sintetizzato nei tags) oppure il trattamento fotografico, (lo “specifico fotografico”), che è riassunto nei 19 filtri oppure nella tabella di strumenti dell’ultima versione.  Mi sembra immediato il loro cogliere il “Punctum”,  ciò che irrompe, cattura (ed anche punge, disturba,affascina)…,  (mi riferisco ad un classico della teoria fotografica di qualche anno fa: Roland Barthes, La Chambre Claire, Gallimard / Seuil , Paris 1980 – tr. italiana Einaudi 2003).  Ovviamente la dimensione fotografica è solo un elemento della condivisione su Instagram; bisogna tenere presente una forte componente autobiografica e quindi il valore di testimonianza (il nostro essere qui ed ora, quasi una presa diretta sul reale). Ed è altrettanto naturale che, come qualsiasi altro Social Network (in primis Facebook), sia usato anche per la comunicazione finalizzata di Aziende ed Enti, come in questo caso dalla Regione Puglia per la promozione del nostro territorio.

KATIA MI

@katia_mi ama molto le inquadrature frontali, oltre che il bianco nero seppiato. La sua visione è personalissima…

schede

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@katia_mi – http://instagram.com/katia_mi – 450.000 followers – Moscow – Federazione Russa

 

@maka_smirnova - http://instagram.com/maka_smirnova - 371.000 followers - Saint Petersburg - Federazione Russa

@maka_smirnova – http://instagram.com/maka_smirnova – 371.000 followers – Saint Petersburg – Federazione Russa

Olesya

@olesya_gribova http://instagram.com/olesya_gribova -192.000 followers – Moscow – Federazione Russa

 

Umitko

@umitko – http://instagram.com/umitko – 12.000 followers – Istanbul – Turchia

per ulteriori informazioni rimando al blog di Igerspuglia, da cui ricavo questo estratto dall’articolo di Annarita Dipace (@igerspuglia) “Dopo cinque intensissimi e meravigliosi giorni si è concluso il 22 maggio l’Instatour #TellMeAboutPuglia, un progetto ideato, progettato e realizzato dal team @igerspuglia grazie al sostegno di Puglia Promozione (Agenzia Regionale del Turismo), Comune di Bari, Cesvir nella persona di Rocky Malatesta, Roberto Sibilano per il progetto #Bari100x100, il B&B Fuori dal Mondo con lo chef Pasquale Fatalino e le Grotte di Castellana. In occasione dell’VIII edizione del Festival dell’Arte Russa che ogni anno si apre al mondo russo, alla sua cultura e tradizioni permettendo così un vero e proprio interscambio culturale tra la Russia e la Puglia, Igerspuglia ha potuto invitare dal 16 al 22 maggio tre delle più importanti Instagramers russe e una turca col fine di promuovere le bellezze storico-artistiche e paesaggistiche del tacco d’Italia attraverso Instagram. @umitko, @maka_smirnova, @katia_mi e @olesya_gribova, alcune di loro per la prima volta in Italia, hanno conosciuto, visto, ammirato e  documentato attraverso scatti fotografici, ognuna a suo modo e ognuna con il proprio stile, alcuni dei luoghi più caratteristici della nostra Terra. (…)”

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Pagare gli artisti

PAYING ARTISTS

Il logo della Campagna “Pagare gli Artisti – valorizzare l’arte, valorizzare gli artisti”

Il fatto che spesso (o sempre) gli Autori (fotografi o artisti visivi in genere) non siano pagati (né rimborsati delle spese vive) per la partecipazione a mostre è da sempre argomento di dibattito tra amici e colleghi. Mi ha perciò molto colpito questo articolo di Mark Brown nel Guardian di qualche giorno fa. Ne traduco qualche brano: “Una ricerca mostra come il 70 % degli artisti che hanno preso parte a mostre supportate da finanziamenti pubblici non ha ricevuto alcun compenso. La ricerca è parte di una campagna di sensibilizzazione chiamata “Pagare gli Artisti”, che si propone di trovare un sistema più equo. (…) La ricerca suggerisce che gli artisti hanno percepito in media, in termini reali, circa £ 6.000,00 (circa € 7.400,00) in meno rispetto al 1997. L’organizzazione an (che ha condotto la ricerca) rappresenta 18.000 artisti, dagli esordienti ai vincitori del premio Turner. Ne sono stati intervistati più di 1.000, ed è emerso che:

il 71% di coloro che hanno preso parte a Mostre con finanziamento pubblico non ha ricevuto alcun compenso.

Di questi,il 59% non ha avuto neanche un rimborso spese

il 63% ha dovuto declinare inviti di partecipazione a mostre perché non può permettersi di lavorare gratis.

il 72% degli artisti intervistati guadagna meno di £ 10.000,00 (circa € 12.400,00) all’anno (….)

la campagna è sostenuta dalla Galleria Showroom che ricava il 40% delle sue entrate dall’Arts Council England (un Ente Pubblico che è finanziato dal Governo e dalla Lotteria nazionale) (….) La Galleria organizza 4 mostre all’anno che sono il risultato di nuove commissioni ad artisti che vengono pagati una media di £ 2.000,00 (circa € 2.500,00) a mostra (oltre al rimborso spese NDR). la Direttrice Emily Pethic ha dichiarato che le piacerebbe pagare di più perchè la risorsa principale degli artisti è il tempo. “Per aver quel tempo gli artisti devono essere pagati. E’ importante far emergere la rilevanza economica dell’arte. C’è molta produzione culturale in questo paese ma le persone che sono pagate di meno, all’interno di questo processo, sono proprio gli artisti. C’è bisogno di un grande ripensamento.”

C’è anche da considerare come “pagare gli artisti” abbia anche un effetto benefico sull’economia in generale: in un articolo di 5 anni fa sull’Atlantic Monthly Felix Salomon sosteneva che per creare un posto di lavoro nel settore artistico bastava un investimento pubblico di $ 30.000,00 (circa € 22,000,00), mentre invece per avere lo stesso risultato nel settore dei lavori pubblici bisogna spenderne un milione (circa € 740.000,00).

 

 

 

Fotografare per passione

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foto di Wilhelm Westergren, fotografo testimonial per la Phase One questo mese

Siamo abbonati alla newsletter della Phase One (possediamo due dorsi che usiamo con grande soddisfazione per gli still-life in studio). Mi ha colpito il cambiamento, negli ultimi anni, della figura del fotografo in quanto possibile Cliente di un dorso Phase One (parliamo di un investimento dell’ordine dei 20.000,00 – 30.000,00 €, più di quello che magari si spende per una automobile). Se un tempo il classico testimonial era un fotografo professionista di successo, meglio se con un cognome difficile da pronunciare, ora il target è diventato il fotoamatore con buone disponibilità economiche… Questo mi porta a riflessioni amare sul destino del fotografo professionista in quanto tale. Infatti con il crollo delle tariffe diventa sempre più difficile ammortizzare il costo di un dorso e/o di una medio formato di nuova generazione (tipo le nuove Hasselblad) per i professionisti di livello “medio”. Ecco allora che ci si rivolge ad una altro target, quello dell’amatore con un buon reddito e capacità di apprezzare la differenza qualitativa di un file ottenuto da un dorso rispetto a quello proveniente da una buona reflex. E’ un pò lo stesso bacino di utenza dei workshop internazionali di alto profilo (avete un figlio/parente/amico tra i 15 ed i 19 anni ? avete circa 5.000,00 o 6.000,00 $ da regalare ? L’agenzia viiphoto organizza un bellissimo workshop in Costa Rica destinato appunto agli adolescenti …). Ma torniamo alle nostre storie di “fotografi per passione”. Qui sotto tre esempi proposti da Phase One nella loro newsletter.(tra virgolette riporto i testi della edizione italiana)

febbraio 2014

“Di giorno, Wilhelm Westergren lavora come Dirigente Marketing in un’azienda di Bruxelles. Di notte (o perlomeno, ogni qualvolta abbia del tempo a disposizione), si dedica al suo secondo lavoro come Fotografo. Wilhelm lavora con le pellicole ed il formato digitale, realizzando immagini a colori, ma anche in bianco e nero. Il suo eclettico portfolio, comprende immagini di sport e cavalli, ritratti, immagini life-style e vita di strada, oltre ai paesaggi visitati durante i suoi viaggi negli Stati Uniti, in Europa, in Medio Oriente e in Sud Africa. Wilhelm ha imparato la sua professione da fotografo, completamente da autodidatta, approfondendo le caratteristiche tecniche, visitando tutti i rivenditori di fotocamere di Parigi ed immergendosi nella lettura di libri d’arte sulla stampa, disegni, sculture e architettura.”

gennaio 2014

“Fotografo per passione, Fokion Zissiadis giustifica l’investimento di tempo e denaro per la sua fotografia. Coproprietario del Sani Resort, 5 stelle L, per Fokion Zissiadis il tempo è prezioso. Quindi, quando si ritaglia del tempo dal suo programma pieno di appuntamenti, niente può essere lasciato al caso!”

febbraio 2013

“Noi di Phase One siamo sempre entusiasti nel vedere come fotografi appassionati di tutto il mondo utilizzino le nostre soluzioni di immagine e, dopo aver incontrato Diego Rigatti, abbiamo ritenuto la sua storia talmente d’ispirazione, che abbiamo voluto condividerla con voi… In questo video, puoi seguire Diego durante il suo recente viaggio negli Stati Uniti. Scopri l’approccio di Diego ad immagini di paesaggi leggendari, al perfezionamento delle sue acquisizioni con l’utilizzo di Capture One Pro 7 e durante la realizzazione di incredibili stampe di grandi dimensioni poi esposte nel suo ristorante di Milano.”

Un premio annullato

foto di Liz Hingley da  "The Jones family"

foto di Liz Hingley da “The Jones family”

Seguendo le vicende del Festival della Fotografia Etica di Lodi (uno dei più importanti festivals europei dedicati alla fotografia di indagine e di approfondimento) ero rimasto colpito da una notizia: la vincitrice del premio WRA (World Report Award) categoria “Spot Light” dell’edizione 2013, la fotografa inglese Liz Hingley , non aveva ottemperato al regolamento e quindi il premio stesso era stato ritirato in attesa di riassegnazione. Poichè mi aveva colpito il lavoro di Liz (l’indagine riguarda una famiglia che abita alla periferia della città operaia di Wolverhampton, per esplorare – come dice l’Autrice – “il significato – e l’esperienza – della privazione materiale nel contesto di un paese ricco”) ho pensato di chiederle direttamente come fossero andate le cose. Ora Liz Hingley vive a Shangai (Cina) su invito della Accademia di Scienze Sociali per proseguire le sue ricerche sulle religioni urbane. Raggiunta via Skype a casa ha raccontato il dietro le quinte della notizia. La vicenda è allo stesso tempo complicata ma anche indicativa del clima che si è creato intorno alla fotografia di réportage. Infatti nel regolamento era prevista la sottomissione degli originali alla Giuria per la conferma del premio. Questo perchè c’è un grande dibattito – ed un grande timore – intorno al tema della manipolazioone digitale delle immagini e gli organizzatori vogliono essere sicuri che non ci siano state alterazione sostanziali (fotomontaggi, eliminazioni di parti della scena ecc.). Ora un originale può essere un RAW file oppure, sempre più raramente, un fotogramma su pellicola. A causa di problemi organizzativi e logistici era difficile per Liz esibire materialmente i negativi (lei lavora in negativo colore  a partire dal quale ottiene scansioni in alta risoluzione) ma aveva ottenuto una dichiarazione dal laboratorio che cura la scansione e la stampa che attestava come le scansioni in alta risoluzione (inviate al Festival) fossero effettivamente gli originali a partire dai quali era stato effettuato il normale lavoro di postproduzione (colore, contrasto ecc.). Purtroppo però non si è trovato un accordo ed il premio ora è stato riassegnato ad un altro lavoro, molto significativo dalla fotografa americana Sara Naomi Lewkowicz: “Shane and Maggie“. Si tratta di un rèportage molto drammatico, mentre il lavoro di Liz era piu sobrio e meno spettacolare. Un vero peccato che non si sia potuto trovare una soluzione nel considerare come “originali” le scansioni in alta risoluzioni dei negativi colore… Il Festival della Fotografia Etica di Lodi ha dimostrato un grande rigore ed una grande serietà nel rispettare il regolamento ma forse alla luce di questa esperienza e pensando anche ad altre possibili situazioni simili si potrebbe articolare maggiormente il concetto di originale….

Ora Liz sta proseguendo la sua ricerca a Shangai e ha appena pubblicato un libro nella collana “Portraits de Villes” delle edizioni Be-Pôles di Parigi…

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dal libro Shangai di Liz Hingley

Riflessioni sul ritratto

dal libro di Adam Panczuc "Karczeby"

foto di Adam Panczuk, dal libro “Karczeby”- Il volto occupa una porzione minima dell’inquadratura, eppure è difficile pensare ad un maniera più potente di mettere in scena il carattere di una persona o – come in questo caso – di una popolazione.

Nella fotografia di ritratto (anzi nel ritratto in generale) spesso la questione principale è il posizionamento del soggetto. Ad esempio il rapporto tra le testa ed il busto, la posizione delle mani, o più in generale la postura generale del soggetto. Se si escludono i primissimi piani, l’importanza dell’intero corpo, anche vestito, è pari al quello del volto. Grande importanza ha inoltre l’ambientazione del ritratto, che mette in relazione la persona con il territorio o la propria occupazione. Quindi questo vuol dire location, abbigliamento, oggetti. Mi hanno colpito le immagini del fotografo polacco Adam Panczuk, che nel suo libro Karczeby (che è entrato nella short list  del premio del libro di Paris Photo e della Fondazione Aperture nell’edizione del 2013) ha sviluppato un suo personalissimo stile di “messa in scena” dei soggetti ritratti. Come spiega il fotografo nell’introduzione alla sua Gallery: “In uno dei dialetti parlati nella Polonia orientale, un misto di Polacco e Bielorusso, le persone fortemente attaccate alla terra coltivano da molte generazioni erano chiamate “Karczebs”. Con le loro mani nude i Karczebs hanno disboscato foreste per piantare i loro raccolti. La parola Karczeb era anche usata per descrivere ciò che resta dopo che un albero è stato tagliato: un ceppo con le radici, che rimane piantato per terra. Questo vale anche per le persone: non era facile per le autorità sradicarle dalla loro terra, anche ai tempi dello stalinismo. Il prezzo da loro pagato per l’attaccamento alla terra è stato spesso la loro libertà o la loro vita. Dopo la morte, seppelliti vicino le loro fattorie, i Karczebs stessi diventavano terra, coltivato in seguito dai loro discendenti.” Nel libro si trovano varie messe in scena di persone che ne sottolineano in maniera direi teatrale il rapporto con la terra.

foto di Adam Panczuk, dal libro Karczeby

foto di Adam Panczuk, dal libro Karczeby

Altre volte in mniera quasi miracolosa si ritrova nei gesti di una persona qualcosa che mette in rapporto la nostra idea della persona (che magari non conosciamo affatto) con il suo aspetto esteriore… Ad esempio durante un recente réportage per la Chiesa Ortodossa di Bari ho fotografato l’assistente del Metropolita Vikentij in una posa che mi ha affascinato senza capire immediatamente perchè. Si tratta in effetti di un atteggiamento di raccoglimento religioso e di predisposizione all’accoglienza che si ritrova nell’iconografia dell’Annunciazione. Ci sono quindi dei gesti e delle posture spontanee che, attraverso i secoli, ci parlano dell’interiorità della persona ritratta.

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a sinistra, un dettaglio dall’Annunciazione di Masolino da Panicale (ca 1423 dC), a destra una mia foto in occasione delle celbrazioni del San Nicola Ortodosso a Bari. La posizione della mano e l’inclinazione del volto si prestano benissimo a rappresentare visivamente il raccoglimento religioso e la concentrazione.

Messa a fuoco

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la selezione del punto di fuoco è essenziale in una immagine come questa (Melfi, PZ – Fontana del Bagno)

L’ ultimo  modello Canon presentato a marzo 2012, la 5D Mark III,  dispone di un sistema autofocus complesso, derivato e perfezionato dal modello 1D; dispone di una tale varietà di personalizzazioni  e opzioni che può lasciare francamente disorientati. Il manuale di 404 pagine  fornito, anche se completo da un punto di vista tecnico, lascia comunque non pochi dubbi. Per questo motivo ritengo molto utile questo PDF esplicativo, pubblicato a cura di Canon sul suo sito cpn.canon-europe.com, dedicato interamente agli aspetti “autofocus” del modello 5D MkIII. La parte più interessante sono gli esempi fotografici “Real World” che rendono chiare le tante funzioni di questa macchina. L’ attenzione di Canon per l’ autofocus di questa macchina parte da lontano. Fra il 1992 e i 2000,  il costruttore  produsse in varie versioni la EOS 5, una fotocamera  unica: aveva la possibilità di  selezionare  con il movimento della pupilla nel mirino quali punti di messa a fuoco selezionare, fino ad 11 negli ultimi modelli in produzione. Si trattava del “eye-controlled focusing (ECF)” Il problema era che bisognava tarare questa funzione per ogni possessore di fotocamera , e non funzionava comunque per tutti. Spesso, anche per le limitate capacità di calcolo dei processori interni di quegli anni, la macchina non riusciva a mettere a fuoco nel punto selezionato, cosa che poteva significare per un fotografo professionista di non portare a casa il lavoro. Questa tecnologia fu quindi percepita dal mondo professionale come non affidabile, quasi un “gadget”. Invece fra gli amatori fu molto amata e leggendo i commenti sul web molti la rimpiangono ancora. Canon decise quindi di abbandonare il progetto. C’ è da chiedersi però se  con la tecnologia disponibile oggi, e con l’ ibridazione sempre più forte fra il mondo del professionismo e quello dei fotoamatori “consapevoli”,  (la 6D ne è un esempio), non sia il caso di riprenderlo. Per saperne di più:

Eye Tracking Update

imaginendless.blogspot.it

La Canon 5

La Canon EOS 5/A2 (E) fu prodotta tra il 1992 ed il 2000

Oltre Photoshop ?

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Un esempio di funzionalità presente solo su Photoshop CC, la riduzione del mosso (Shake Reduction). E’ davvero indispensabile ? Potrebbe liberare i fotografi dal peso del treppiede ? (foto di Anthony Sebastian dal sito Extremetech.com)

Alla luce dei recenti cambiamenti introdotti da Adobe nella sua politica commerciale, molti si stanno chiedendo: si può realizzare un efficace workflow fotografico senza (più) utilizzare un software diventato di fatto indispensabile ? Photoshop viene ormai usato per antonomasia ad indicare, in generale, il processo di postproduzione fotografico. (“gli dai una mazzata di photoshop ? ...” ) Esiste una alternativa reale ? Probabilmente no. Forse un software avrebbe potuto competere all’inizio degli anni 2000, Il Photo-Paint (ora Paint Shop) della Corel, se fosse stato sviluppato anche per il sistema operativo OS invece di restare limitato (si fa per dire) all’ambiente Windows. E’ quanto sostiene Dan Margulis in un interessante articolo che trovate parzialmente tradotto alla fine di questo post. Ma andiamo con ordine. E’ stata una vera e propria rivoluzione: a maggio di quest’anno Adobe ha annunciato che Photoshop, insieme agli altri softwares della Creative Suite, non sarebbe più stato venduto come software con licenza d’uso illimitata, ma come abbonamento ad un servizio. (Lightroom5 resta invece per il momento ancora disponibile nella versione tradizionale). Quindi per accedere alla versione di Photoshop successiva alla CS6 (chiamata CC, creative cloud) bisogna sottoscrivere un abbonamento singolo, che può essere trasferito da una postazione all’altra ed essere usato contemporaneamente su due macchine (questo di fatto dimezza il costo per uno studio con due postazioni), oppure un abbonamento multi-utente (team). Questa opzione era già disponibile dallo scorso anno, ma ora è diventata l’unica possibile. Da notare che questo non significa lavorare “in remoto” ; semplicemente il software diventa simile ad una “App” che si aggiorna di continuo e che compie verifiche mensili sulla regoalrità del pagamento. Solo al momento della verifica (e degli aggiornamenti) è necessario essere on line. Si è sollevato un ampio dibattito, ad esempio negli States, sulle conseguenze pratiche per i fotografi e sulle relative prospettive. Quasi tutti i commenti sono stati negativi, anche perchè è sembrata una mossa intrusiva della Adobe e , sopratutto, la prospettiva di dovere pagare “a vita”  non piace a moltissimi colleghi. Ci sono state anche difficoltà iniziali nell’utilizzo dei “pannelli” customizzati che facilitano il lavoro di tantissimi colleghi. In controtendenza citiamo un parere favorevole del Guru Luca Pianigiani, che in suo Sunday Jumper di maggio scriveva: “Rispetto ad un anno fa, lo step dell’altro giorno compiuto da Adobe è stato definitivo: con la nascita della Creative Cloud (CC) sparisce il concetto di “possesso” del software ed esiste solo quello di “utilizzo”. Per farla semplice, spariscono “le scatole”, e sparisce anche il ruolo del “rivenditore”: si compra la licenza d’uso on line, scegliendo l’opzione che si desidera, si paga con la carta di credito e si parte“.  Altri “guru” sono comunque di parere molto diverso. Dan Margulis, considerato il massimo esperto mondiale di color correction ed autore di libri di testo sul Photoshop diventati punto di riferimento indispensabile, ha scritto: “nel maggio 2013, in una mossa di public-relation disastrosa, Adobe ha annunciato che non avrebbe più sviluppato un software da vendere con una tradizionale licenza d’uso permanente. Al contrario, coloro interessati alle ultime versioni si sarebbero dovuti abbonare, cioè affittare il software su base mensile, senza possibilità di continuare ad usarlo in caso di cessazione dell’abbonamento stesso. Questo annuncio ha causato una protesta di dimensioni ed intensità mai viste prima. Decine di migliaia di clienti Adobe hanno pubblicamente dichiarato che non avrebbero sottoscritto l’abbonamento alla nuova versione. Alcuni di costoro hanno dichiarato che non avrebbero più acquistato prodotti Adobe ed avvrebbero cercato una alternativa al Photoshop. Così altre Aziende stanno intravedendo nuove opportunità. (….) Una settimana dopo l’annuncio Adobe il top manager della Corel, Gérard Métrailler, ha dichiarato: – dopo l’annuncio Adobe sul Creatie Cloud abbiamo ricevuto molte richieste di informazioni sulla possibilità di acquistare versioni Mac dei nostri prodotti per dare agli utilizzatori Apple una alternativa …. far uscire sul mercato una versione Mac OS richiederà tempo ed investimenti considerevoli …. per il momento stiamo valutando le possibilità – ” E’ probabile quindi che ci sarà parecchio movimento nel settore nei prossimi mesi. Una piccola panoramica su altri prodotti “alternativi” al Photoshop si può leggere qui, in fondo alla pagina (anche se dubito che qualcuno di questi possa diventare un vero punto di riferimento).

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Una immagine che sta girando in rete a proposito delle proteste di utenti Adobe infuriati a causa dei recenti cambiamenti …

La cornice distorta

Un fotografo che Ritchin cita nel suo libro: Kent Klich, dalla serie Picture Imperfect

Kent Klich, dal libro Picture Imperfect. Un album di famiglia stravolto e sconvolgente; Ritchin ne parla nela suo ultimo libro. Il Time lo definisce uno scambio di percezioni alla pari tra il fotografo svedese Kent Klich e Beth R., ex prostituta e tossicodipendente residente a Copenhagen, che Klich ha iniziato a fotografare nel 1980. Nel 2007 è stato pubblicato il libro.

“Le fotografie non sono lì per mostrarci il mondo, ma solo una versione di ciò che sta succedendo” (Fred Ritchin)

In fondo la “fotografia che racconta” è stata davvero fondamentale per la storia della fotografia e anche per capire la storia “tout court”. Una fotografia spesso è in grado di darci informazioni ed emozioni insieme, e aiuta a mantenere i legami con il nostro passato prossimo. C’è anche una fortissima valenza politica: spesso una fotografia è stata in grado di modificare l’opinione pubblica di grandi paesi come gli Stati Uniti.  Le cose stanno cambiando rapidamente e radicalmente, come sappiamo;  mi ha molto stimolato la lettura di una bella intervista di qualche giorno fa, su “Mother Jones“, al noto teorico della fotografia Fred Ritchin, a proposito del suo ultimo libro. “Bending the frame: Photojournalism, Documentary, and the Citizien” – curvare, storcere la cornice: fotogiornalismo, documentazione e cittadinanza – (vedi anche la recensione sul Time). Qualche tempo fa avevamo segnalato sulla nostra pagina Facebook la vicenda del Chicago Sun-Time che ha licenziato in tronco tutti i fotografi e photo-editor del giornale (28 persone) per tagliare i costi, affidando la realizzazione di foto e video ai giornalisti. L’intervista a Ritchin prende le mosse da questo fatto recente. Ne traduco qualche passaggio che mi ha particolarmente colpito. Le foto che illustrano il post sono di un fotografo citato da Richin nel suo saggio, lo svedese Kent Klich.

Può il fotogiornalismo sopravvivere nell’era di Instagram ?

Mother Jones: cosa significa il recente licenziamento al Chicago Sun-Time per i fotogiornalisti ?

Fred Ritchin (…) C’è una enorme richiesta di professionisti che sappiano raccontare le loro storie con un piglio narrativo e capacità di cogliere sfumature, che lavorino  in manera “attiva” e non solo “re-attiva”, e che abbiano un approccio dalle molte sfaccettature. Ci servono fotografi più “utili”. Dati i recenti budgets destinati al giornalismo, penso che ci saranno altri licenziamenti nel prossimo futuro. Ma certamente spero che molti giornalisti visuali (visual journalists) saranno impiegati o finanziati.

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Kent Klich, Image Imperfect

(…)

MJ: L’etica del giornalismo è cambiata nell’epoca dello smartphone ?

FR: Il fotogiornalismo è diventato una attività ibrida di amatori e professionisti, fotocamere di sorveglianza, Google Street View, ed altre fonti ancora. Forse sono in numero insufficente quei “metafotografi” (“metaphotographers”) che possono dare un senso a milioni di immagini che vengono realizzate, inserirle in un contesto e verificarne l’autenticità. Abbiamo bisogno di editors che possano filtrare questa sovrabbondanza più che di nuove legioni di fotografi. L’etica sicuramente è cambiata, per rispondere alla sua domanda: molti che fotografano con gli smartphone sono parti in causa con forti interessi in quello che stanno fotografando. In qualche modo questo rende il loro lavoro più onesto e più facile da leggere – possono anche manipolare, ma anche i professionisti possono farlo naturalmente.

(…)

MJ: Come Photo-editor di riviste, cosa valuta in una foto ? Qual’è il peso dell’estetica rispetto al bisogno di illustrare o informare ?

FR: La fotografia richiede l’attenzione di chi la osserva, spesso in maniera implicita, ponendo interrogativi sulla natura di quello che viene raffigurato. Le fotografie non sono lì per mostrarci il mondo, ma solo una versione di ciò che sta succedendo. La situazione ideale è quella  in cui il lettore è abbastanza motivato per  impegnarsi attivamente nello stabilire il significato di una raffigurazione.

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Kent Klich, Image Imperfect

La luce per l’arte

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la fedele mira di riferimento Gretag-Macbeth, che viene sempre in giro con noi !

Qual’è la giusta luce per la riproduzione di opere d’arte tridimensionali ? Stiamo lavorando ad una campagna fotografica relativa a manufatti (sopratutto altari) del ‘600-‘700. L’altare barocco è una “macchina scenica” complessa che comprende scultura (in marmo, legno dipinto come marmo, legno dorato, stucco ecc.) pittura a olio (su tela o tavola), pavimentazione, volta ecc. Sono completamente integrati nell’architettura delle cappelle private in cui spesso sono stati eretti. Questa attività ci ha dato lo spunto per varie riflessioni relative alla fotografia di opere d’arte, specialmente tridimensionali, quali appunto le sculture o altari. Consideriamo sopratutto due aspetti: l’illuminazione e la scelta del punto di vista.

Illuminazione. In passato (circa 20 anni fa) abbiamo collaborato ad una campagna fotografica simile. All’epoca si lavorava in banco ottico (lastra 4″x5″ oppure 13×18) e la sensibilità delle pellicole era molto bassa (la pellicola ad esempio più usata per gli interni in luce artificiale era la Kodak 64T, che come dice il nome stesso aveva sensibilità 64ASA/19DIN). Il ricorso all’illuminazione artificiale era indispensabile: infatti la pellicola andava incontro al difetto di reciprocità con le lunghe esposizioni (cioè superata una durata di 4 o 8 secondi l’esposizione non aumenta più in maniera proporzionale all’aumento del tempo di esposizione. Anche il colore poteva subire slittamenti); i risultati erano soddisfacenti dal punto di vista tecnico ma a mio visto molto “innaturali” dal punto di vista iconografico. Infatti mi riesce difficile immaginare un fruitore del ‘700 che osservi un altare illuminato simmetricamente da 4 faretti (due per lato) orientati simmetricamente a 45°, secondo gli schemi classici dell’illuminazione per riproduzione di opere d’arte. Probabilmente adesso la sensibilità dei sensori fotografici di ultima generazione, combinati ovviamente alle lunghe esposizioni (cavaletto, e cavaletto pesante) ed alla possibilità di montare più riprese con diverse esposizioni (HDR) ci rende in grado di fronteggiare meglio la situazione, possiamo fotografare in luce ambiente restituendo tutta la magia della penombra di una cappella barocca oppure il trionfo di una volta, senza luci puntiformi, che generano riflessi anch’essi puntiformi, ed ombre nette, “tagliate”. Inoltre la produttiva è aumentata notevolmente, cioè si possono realizzare molte più inquadrature e dare al Photo Editor o allo studioso più possibilità di scelta in base all’impaginazione. Certo la fatica (fisica) di liberare gli altari, durante le riprese fotografiche, da oggetti estranei alla concezione del progetto originale (fiori, leggii, ecc.) resta, eccome !!

Ecco un esempio di situazione in cui, senza l’utilizzo della tecnologia digitale, ci saremmo trovati in grosse difficoltà: questa ripresa in pianta della cappela del SS. Sacramento nel Duomo di Brindisi presentava differenze di esposizione di oltre 5-6 stop ….

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esposizione chiara (x zone scure)

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espsoizione scura (per la cupola centrale – soggetto principale della foto)

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esposizione media (per la cupola a sinistra)

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montaggio delle tre esposizioni

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L’utilizzo di un buon treppiede consente di effettuare lunghe esposizioni senza rischi di mosso o di non messa a registro dei vari scatti. Consente anche di sollevarsi di 3-4 metri senza ricorrere all’utilizzo di trabatelli (questo è importatne per la scelta del punto di vista)

Ecco invece un altro esempio in cui la postproduzione ha reso l’immagine molto più leggibile e fruibile per lo studioso:

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ripresa originale in luce ambiente

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ripresa dopo una post-produzione destinata alla stampa B/N

Ovviamente non è detto che sia una strada più “facile”, perchè è richiesto un buon lavoro di correzione colore (la luce ambiente è per definizione sfuggente, prende dominanti e temperature colore che cambiano in base all’ora della giornata o ai luoghi della Chiesa). Come regolarsi ? diventa indispensabile il ricorso alle tecniche di Color Menagement (utilizzo delle mire di riferimento, creazione di profili colore ad hoc). Resta comunque il problema di uniformare poi il colore, il “look” fotografico delle varie cappelle all’interno della stessa chiesa. Penso che sia una strada, certo non “più facile”, che consente di avvicinarsi alla visione del fedele (il fruitore), ed al progetto degli artisti e delle maestranze che hanno lavorato per anni con pazienza e perizia alla realizzione di opere davvero uniche.

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il classico schema di illuminazione per originali bidimensionali (quadri)

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se potessi, vorrei illuminare l’interno di una grande chiesa con questi grandi palloni luminosi (vengono utilizzati nel cinema per illuminare grandi ambienti con luce morbida, generalmente la fonte di luce è 5000 K). I palloni sono della Leelium Balloons.

Il secondo elemento da considerare è il punto di vista, ne parlerò nel prossimo post.

La profondità di un’immagine

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un esempio di ridotta profondità di campo che aggiunge efficacia all’immagine. Ma cosa accadrebbe se scorrendo con il mouse sull’immagine potessimo mettere a fuoco anche altri elementi ? (Poggiardo, LE – Chiesa Matrice)

Prendo spunto da un bel “post della domenica”  di Luca Pianigiani (il suo Sunday Jumper è davvero una lettura interessante), per discutere di … fuoco e di mosso! La modificazioni del linguaggio fotografico prosegue senza sosta. Oggi sta per “crollare” un “caposaldo” che aveva bene o male resistito attraverso tutte le modificazioni degli ultimi anni: quello del controllo della profondità di campo e delle possibilità, attraverso l’ampliamento o la riduzione della stessa, nonchè della scelta del piano di messa a fuoco, di esprimere l’interpretazione del fotografo rispetto alla realtà. La possibilità di creare una selezione del piano nitido dell’immagine è davvero qualcosa che si discosta dalla visione dell’occhio umano, che invece mette a fuoco continuamente il soggetto che fissa. (un pò come la percezione della temperatura colore, che all’occhio sembra sempre corretta mentre invece nella registrazione su supporto analogico o digitale si evidenzia nelle sue differenze). E’ anche una componente del bagaglio di strumenti di Instagram, che consente di aggiungere una sfuocatura radiale o lineare all’immagine. Ora pare che anche questa componente fondamentale del linguaggio fotografico sia destinata a cambiare velocemente. Si era parlato un paio di anni fa di una camera (la Lytro) in grado di registrare un immagine con infiniti piani di fuoco, da scegliere in un secondo momento; in realtà è sempre rimasta a livello di un gadget costoso. Ora invece ci sono novità in uno degli ambiti più creativi della fotografia in questo momento, quella praticata da milioni di utenti con lo Smartphone. In questo settore c’è parecchio movimento. Si sta lavorando infatti alla possibilità di un fuoco multiplo, per permettere all’utente (fotografo) di scgeliere “a posteriori” su quale porzione dell’immagine fissare l’attenzione. Non solo, si potrà addiritttura lasciare questa scelta “aperta” e consentire all’utente finale (il fruitore dell’immagine) di navigare all’interno dei piani di messa a fuoco.  Pianigiani ci parla di due strade seguite dai produttori. La prima, (vedi qui sotto), è un sistema che permette di scattare contemporaneamente la stessa scena con 16 piani di messa a fuoco diversi. Un sistema quindi adatto anche a soggetti in movimento. E’ stato sviluppata dalla Pellican per la Nokia, che punta a diventare punto di riferimento qualitativo per le maccchine fotografiche integrate negli smarphone.

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la presentazione del sistema Pelican: a smart camera (apparecchio fotografico intelligente) for your smartphone (telefono intelligente)

La seconda strada è in realtà una semplice applicazione del fuoco multiplo, una tecnica già usata da anni dai fotografi professionisti, al mondo dello smartphone. Con questa App (che richiede l’utilizzo di uno stativo ed è perciò adatta solo ai soggetti fermi) si scattano molteplici fotografie (in momenti successivi) dello stesso soggetto. Queste foto non solo vengono poi montate insieme in una unica immagine ma, cosa davvero interessante, è possibile navigare nell’immagine spostando il punto di messa a fuoco. E’ possibile vedere un esempio qui sotto:

foto di Luca Pianigiani creata cin la App Twuistfocus

foto di Luca Pianigiani creata con la app Focus Twist (€ 1,79)

Veniamo al mosso, che può essere, se voluto, un altro elemento del linguaggio fotografico. (tra l’altro, al contrario della scelta del piano focale, è specifico della fotografia perchè nel cinema il mosso del singolo fotogramma è solo un fastidio visivo). Però spesso il mosso non è cercato ma è dovuto solo a motivi contingenti (esempio: mancanza di treppiede), e quindi non sarebbe male avere la possibilità di intervenire. Già un paio di anni fa avevamo pubblicato un post (De-Blur Filter) in cui si parlava di un mitico “de-blur” filter di Photoshop, cioè un filtro in grado di rimuovere il mosso (non lo sfuocato “ottico”) calcolando il movimento della camera e correggendolo. Anche la Adobe, due anni dopo il mitico filmato in cui annunciava il De-blur Filter, presenta oggi un filtro (shake-reduction) che sostanzialmente promette di fare la stessa cosa, non lavora cioè sul “fuoco” ma sul mosso non voluto, quello causato generalmente da un tempo di otturazione lento rispetto alla situazione. Per il momento è solo uno Sneak Peek, una soffiata, una indiscrezione …

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la “futura” schermata di Photoshop (CS 7 ??) con il filtro “shake reduction”

I confini del controllo del linguaggio fotografico si spostano continuamente, con decisioni che vengono da lontano, dal mondo delle imprese, dal mondo delle decisioni globali che noi conosciamo spesso in ritardo… ed è sempre più difficile tenere una propria rotta, usare gli strumenti piuttosto che lasciarsi portare dalle nuove opportunità che ci vengono continuamente offerte.

Postproduzione d’Autore

Una foto di Yuri Kozirev prima (in alto) e dopo la postproduzione di 10b

Una foto di Yuri Kozirev / Noor per il “Time” prima (in alto) e dopo la postproduzione di 10b (Libia 2011)

Francesco Zizola è il fondatore, con Claudio Palmisano, di 10b photography, una “casa di postproduzione digitale” che (tra tante altre attività) dà il look finale a moltissimi réportages d’Autore. Spesso si pensa alla postproduzione come creazione di “effetti speciali”. Invece secondo me bisogna considerarla come parte del processo di lavorazione del file RAW, mediante gli opportuni software, al fine di rendere il risultato finale più simile a quello che aveva in mente il fotografo al momento della ripresa. La visione è prima di tutto un processo mentale, poichè il sensore dell’apparecchio digitale è stupido, o meglio è un “grezzo”. Una delle traduzioni di “RAW ” (il formato che registra tutti i dati del sensore senza alcuna interpolazione da parte del microprocessore della fotocamera) è appunto “grezzo” oppure “crudo” contrapposto a cucinato. Negli esempi che vi sottopongo, tratti da un bell’articolo del BJP, la post-produzione di Claudio Palmisano è dovuta basarsi, per motivi logistici relativi alla trasmissione dei files dalle zone di guerra in Libia nel 2011, sul formato JPG. Probabilmente partendo dal file RAW si sarebbe potuto interpretare ancora meglio la situazione. In ogni caso non si tratta di “manipolazione” della realtà nel senso che non viene rimosso, sostituito o modificato neanche un pixel. Si agisce solo sui parametri dell’immagine che ne determinano l’aspetto finale, quali contrasto, luminosità colore ecc.. (sul loro sito si può leggere la loro dichiariazione etica, in cui chiariscono i principi che seguono durante la postproduzione)
L’autore – Yuri Kuzirev – trasmetteva gli scatti dalla Libia a Claudio Palmisano di 10b che li postproduceva e poi caricava direttamente sul server del “Time” per la pubblicazione. C’è in questo caso una completa fiducia tra il fotografo e il suo “stampatore” (uso questo termine un pò anacronistico ma secondo me il senso è quello)… mi viene in mente il rapporto – veramente esemplare – tra il grande Luigi Ghirri e la persona che ha sempre stampato le sue foto a colori, Arrigo Ghi a Modena.

foto di Yuri Kozirev / Noor per Times

foto di Yuri Kozirev / Noor per Time (Libia 2011), prima e dopo la postproduzione di 10b.

Il lavoro della postproduzione “d’Autore” è evidente anche guardando uno degli ultimissimi lavori di Francesco Zizola, (una bella serie di ritratti degli eletti del Movimento 5 stelle, realizzato per il quotidiano olandese De Volkskrant), di cui pubblico un paio di esempi più sotto. Le foto sono realizzate in studio con luce diretta, abbastanza dura, a volte se ne scorgel’ombra sotto le sopracciglia. Il microcontrasto è molto spinto, si percepiscono i pori della pelle, le imperfezioni che in genere si nascondono con il trucco oppure la postproduzione “tradizionale” del ritratto, specialmente in quello femminile. (i ritratti sono stati pubblicati su Internazionale N° 991 del 15/03/2013)

Francesco Zizola, ritratto di Stefano Vignaroli, deputato del movimento 5 Stelle.

Francesco Zizola, ritratto di Stefano Vignaroli, deputato del Movimento 5 stelle. (marzo 2013)

Francesco Zizola, ritratto di Roberta Lombardi, 39 anni, eletta allacamera dei deputati

Francesco Zizola, ritratto di Roberta Lombardi, 39 anni, eletta alla
Camera dei Deputati per il Movimento 5 stelle (marzo 2013)

Lo sguardo di Lynch

Pensando alla recente conversazione su Paris Photo 2012 di Antonio Tartaglione (“Al mercato dell’arte” – chi fosse interessato può scaricare un  PDF  con tutte le slides della presentazione) presso il Museo della Fotografia del Politecnico di Bari mi è sembrato interessante il fatto che la direzione della manifestazione abbia pensato di invitare un “non addetto ai lavori” – David Lynch – per creare un percorso che potesse orientare il visitatore tra gli oltre 1000 fotografi esposti in circa 120 gallerie. Il regista inglese è stato invitato a selezionare 99 opere fra quelle presenti al Gran Palais. Questa selezione è stata presentata sia in un catalogo che mediante una piantina alternativa a quella ufficiale, con il percorso di Lynch evidenziato in giallo. Inoltre sotto ogni foto selezionata è stata apposta la “firma” del regista. Questa è un’ intervista tratta da “Le Monde” del 16 Novembre e raccolta da Claire  Guillotte. “Il regista David Lynch, che è anche scultore, fotografo e grande appassionato di incisioni, invita i visitatori a seguirlo per una passeggiata personale attraverso le immagini di Paris Photo. Ha scelto 99 fotografie fra tutte quelle presentate dalle gallerie e le ha riunite in un volume edito da Steidl (Paris Photo vu par David Lynch) Come nei suoi films, queste immagini raccontano storie particolari e inquietanti. Un bordello vuoto illuminato da luci scintillanti, di Katharina Bosse, una famiglia di gitani fotografata attraverso gli anni da Mathieu Pernot, un notturno misterioso e magico di Olivier Metzger, infine una foto anonima dove un gruppo di persone sembra riunito per non si sa quale evento misterioso.

Mathieu Pernot, Roumanie, 1998; foto selezionata da Lynch

Ma il regista, raggiunto al telefono a Los Angeles, è tutt’altro che di umore cupo.

D: Come è giunto alla fotografia?
R: Dopo il mio film, Velluto Blu, un’ azienda mi ha regalato una macchina fotografica. In cambio dovevo inviargli una mia fotografia, realizzata con l’ apparecchio. Ero molto eccitato perché all’ epoca avevo la cucina invasa dalle formiche. Ho realizzato una piccola testa umana con del formaggio, del tacchino e una cera usata nel cinema per gli effetti speciali, Mortician wax. Per quattro giorni ho fotografato le formiche che si arrampicavano sulla testa e la divoravano. Era veramente stupendo! Gli ho inviato una di queste immagini e sono stato preso dal virus della fotografia.

D: Cosa fotografa?
R: Mi piace fotografare nudi, femminili, sono affascinato dalla varietà infinita del corpo umano: è sorprendente e quasi magico vedere come ogni donna sia diversa. Mi piace molto l’ approccio di Diane Arbus che sapeva svelare sempre qualcosa di sconosciuto nei suoi modelli. Io faccio molti primi piani, finchè il corpo diventa quasi un’ astrazione. Fotografo anche fabbriche abbandonate, quando la natura riprende possesso di questi luoghi.

D: Che differenza ci sono fra i suoi films e le sue fotografie?
R: Ogni inquadratura cinematografica è una fotografia, vi si applicano le stesse regole; la composizione, la luce – ci sono veramente forti affinità, anche se  un’ immagine in movimento si guarda in maniera diversa. Ho iniziato a dipingere, per me la pittura è l’ attività più intima, privata al mondo. Si è soli. Il cinema è al contrario un lavoro “pubblico”, si lavora in squadra. Fra le due c’ è la fotografia.

D: Come ha selezionato le immagini per Paris Photo?
R: Ne ho viste migliaia e ho scelto le più forti, quelle che mi saltavano agli occhi. Ho poi via via ridotto la selezione fino mantenerne 99. non so veramente se hanno qualcosa in comune. Non c’ è n’è una che preferisco ma nel libro, ma ne volume si legano facilmente le une alle altre. Direi che se ne potrebbe fare un film, sembrano tutte raccontare una storia, dove, come in una scena, sono in attesa che accada qualcosa. Mi piacciono le immagini dove sta per succedere qualcosa.

D: Come fa a gestire tutte le sue attività la fotografia, l’incisione, il cinema?
R: Approfitto dei miei viaggi, andrò presto in Polonia per il festival “Cameraimmagine” (dal 24 Novembre al 1 Dicembre) per una retrospettiva a Bydgoszcz. Per questa occasione apriranno per me tre fabbriche dismesse, chiuse al pubblico. A Parigi andrò per preparare delle incisioni presso la stamperia d’arte IDEM a Montparnasse.
E’ un posto incredibile, mi piacerebbe fotografare in Francia, non so dove potrei trovare fabbriche abbandonate…

D: Forse a Nord?
R: Si. Pensa che ci siano anche delle donne nude?”

la foto di David Lynch sotto un'opera selezionata

la firma di David Lynch sotto un’opera selezionata

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L’opera di Coplans selezionata

Una nuova democrazia visiva ?

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a sinistra una ripresa con iPhone 5 e l’a App Hipstamatic; a destra le stessa foto filtrata e condivisa con Instagram

Qualche riflessione su Instagram. Da quando uso questo strumento (con grandissimo interesse e divertimento, insieme all’altro, popolarissimo, Hipstamatic) mi sono spesso chiesto in che direzione si muova il trattamento dell’immagine, in che senso si possa dire che questo tipo di applicazioni fondi – o contribuisca a fondare insieme ad altri fattori – una estetica “sociale” della foto; oserei dire (volendo essere critico a tutti i costi) una estetica dove il contenuto è sempre meno importante. Però riflettendo sul contesto in cui questo tipo di Apps vengono usate (cfr J.M. Colberg) si può pensare a diverse potenzialità, diversi risultati in base al contesto di riferimenti culturali e personali dell’utilizzatore. Infatti se un utente superficiale rischia semplicemente di spettacolarizzare la banalità (ed in giro ci sono tanti esempi), un fotografo consapevole dei propri mezzi può usare questi strumenti per ottenere risultati interessanti in maniera più veloce e prevedibile rispetto a quelli consentiti dal flusso di lavoro tradizionale. Può inoltre condividere (o meglio “pubblicare” nel senso letterale di rendere pubblico) le foto in maniera quasi istantanea. L’uso immediato dei filtri (nel caso di Instagram) o delle varie combinazioni obbiettivo/pellicola/flash (nel caso di Hipstamatic) consente anche di superare le limitazioni tecniche che ovviamente ci sono (tra tutte cito la scarsa resa in condizioni di bassa luminosità oppure la mancanza della possibilità di acquisire le informazioni in formato RAW). In un bel saggio Nathan Jurgesson, tra l’altro, sottolinea come  questo trend sia stato reso possibile dalla crescita dell’uso dei telefoni cellulari. Jurgesson elenca tre differenze fondamentali rispetto alla precedente fotografia con macchine digitali “point and shoot” (quelle completamente automatiche, che forse hanno sempre meno ragione di essere) : “(1) il tuo smartphone è sempre con te, probabilmente anche durante il sonno, rispetto anche alla più maneggevole delle digitali; (2) l’apparecchio fotografico nello smartphone esiste come componente di un potentissimo ecosistema hardware/software comprensivo di una serie di applicazioni. (3) lo smartphone è tipicamente connesso ad internet  più spesso e meglio  di quanto lo fossero i precedenti apparecchi fotografici. Così le foto che riprendi saranno probabilmente più “sociali” (in opposizione al solo consumo personale) perchè l’apprecchio fotografico è sempre con te nelle varie situazioni e, cosa ancora più importante, l’apparecchio è connesso con il web ed esiste all’interno di una serie di applicazioni che sono in grado di caricarne il contenuto sui vari social media. Al di là del suo essere sociale, la app rende molto più facile l’applicazione di diversi filtri rispetto all’utilizzo di macchine fotografiche completamente automatiche oppure ai software di editing fotografico utilizzabili sul computer.”

Dal punto di vista delle possibilità creative per i fotografi un parere molto positivo viene proposto dal Journal de la Photographie di oggi, nell’editoriale di Jonas Cuénin; l’autore prende spunto da un evento recente: il Time Magazine (editore di LIFE) ha inviato nello scorso novembre 5 fotografi per documentare il percorso e le conseguenze dell’uragano Sandy, dando come direttiva di utilizzare soltanto smartphhones (in particolre gli Iphones) e di trattare e condividere le foto attraverso il sito Instagram. Il risultato è stato un successo: l’account Instagram del giornale ha avuto 12.000 visite in due giorni mentre il 13% di tutto il traffico del Lightbox del giornale è stato costituito da visite alle foto in questione. Un altro punto di vista molto istruttivo (citato sempre nello stesso editoriale) è quella di James Estrin, redattore capo del blog LENS del New York  Times “Ha importanza che tipo di apprecchio Damon Winter abbia utilizzato per realizzare queste immagini composte in maniera superba ? non penso. Sono le immagini che sono importanti. Quando posso, evito di parlare di attrezzatura fotografica. E’ il fotografo che realizza la foto, non la sua attrezzatura. Non penso che molti si preoccupino  del tipo di macchina da scrivere utilizzata da Hemingway per scrivere i suoi testi !”

Concludo con questo frase in apertura di un articolo del 13 dicembre scorso su Lightbox del Time: “Il dieci per cento di tutte le foto prodotte nell’intera storia della fotografia sono state scattate quest’anno ! Una cifra impressionante. Più che mai nel passato, anche grazie alla tecnologia degli smarphones, il mondo ha avuto a che fare con la fotografia e con la comunicazione attraverso le immagini”.

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a sinistra la foto originale presa con Iphone5, a destra la foto pubblicata con Instagram: in questo caso avrei preferito un taglio non quadrato

Omaggio agli anni ’50

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Freddie Quell (Joaquin Phenix) nella sua breve esperienza di fotografo ritrattista in un centro commerciale … mi piace il contrasto tra il sorriso sul volto e l’oscurità degli occhi …

L’ultimo film di Thomas Paul Anderson, The Master, mi ha stimolato qualche osservazione. E’ ambientato nel 1950, e tra i vari elementi di ambientazione (costumi, scenografia, fotografia) c’è la scelta di tonalità che richiamano le prime pellicole a colori (il kodachrome in particolare). Tutto il film è un omaggio alla fotografia di grande formato, sia nel trattamento del soggetto (il protagonista si ritrova per un breve periodo a fare il fotografo ritrattista), sia nelle scelte tecniche, come vedremo.  Sicuramente una delle prime cose che si notano è la particolare intensità dei primi piani, funzionali  ad evidenziare il tormentato rapporto tra i due protagonisti Freddie Quell (Joaquin Phoenix) e Lancaster Dodd, il Maestro (James Seymour Hoffman).  Occupandomi di ritratto ho trovato coraggiosa la scelta di ricorrere spesso ad una illuminazione dall’alto, senza alcuno schiarimento frontale o laterale. Il fatto è ancora più notevole considerando che il film è girato senza alcun risparmio di risorse, addirittura in formato “extralarge” con pellicola 65 mm (anche se alcune riprese sono girate in 35 mm per motivi di manegevolezza della cinepresa). Purtroppo in Italia non so quanti cinema siano dotati di proiettori 70 mm, comunque, anche visionandola nelle normali sale cinematografiche dotate di proiettore 35mm il risultato è una fotografia ricca di dettaglio, ma sempre asciutta, che addirittura vuole richiamare la luce ambiente. Nel film sono state usate tutte le risorse di illuminazione a disposizione di un direttore di fotografia, dalle luci a scarica (da 18 KW in giù) ai Kinoflo (tubi neon), dai Led a striscia alle lampade di scena (i practicals, cioè luci realmente presenti sulla scena e che vengono inquadrate, in cui si sostiuiscono i bulbi originali con altri più potenti). In particolare le lampade di scena sono usate per la sequenza in qui Freddie Dell lavora come fotografo ritrattista, lo si vede armeggiare con i Photoflood intorno al malcapitato soggetto ! Ancora una volta un esplicito omaggio alla fotografia degli anni 50, al ritratto in studio in cui si ricorreva a luci tagliate che disegnano il volto. Un tipo di illuminazione che non aveva paura dei contrasti marcati e delle zone d’ombra. Un pò come la fotografia di Mihai Malaimare Jr, giovane direttore di fotografia rumeno che si è trovato a dirigere un film in pellicola e con un grosso budget dopo varie esperienze in digitale. In una bell’articolo dell’American Cinematographer il Direttore ricorda: “Qualche mese prima di incontrare Paul (Anderson, il regista) avevo comprato una Crown Graphic degli anni ’40. Al mio secondo incontro con Paul l’ho portata con me ed ho pensato che sarebbe stata una grande macchina da usare per Freddie nei Grandi magazzini. Tutto si è messo a posto da solo… comporre le inquadrature come se fossero ritratti su pellicola a lastra e poi legare questo nella nostra storia”. Questo omaggio alla fotografia anni ’50 di grande formato prosegue nel racconto del direttore di fotografia che descrive anche come, per alcune riprese, abbiano addiruttura usato un suo obbiettivo Hasselblad (85 mm) dei primi anni ’60 con la montatura adattata all’attacco C della cinepresa (35mm in questo caso).

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Freddie Quell usa la Crown Graphic 4″ x 5″ di Malamaire… in alto a destra un Photoflood, tipica lampada da studio del periodo

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giusto per confronto: una foto del 1952 su Kodachrome 35mm (grazie al sito: http://www.shorpy.com/node/14492 vedere anche il nostro vecchio post)

Un altro elemento che ha contribuito alla ricchezza della fotografia è l’utilizzo (in controtendenza rispetto a quanto si fa adesso ed a quanto aveva fatto fino ad ora lo stesso Malaimare) di pellicole a bassa sensibilità (addirittura hanno usato per gli esterni una daylight da 50 ISO !!).. mi ha colpito il contrasto con l’altro film di cui ho parlato di recente (di ruggine e di ossa) in cui invece l’uso di una telecamera digitale settata a 800 ISO ha consentito al direttore di fotografia di girare con liveli di illuminazione molto bassi. Qui al contrario il set era riccamente illuminato ma la fotografia è risultata a volte “povera” in senso positivo, cioè essenziale.

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primo piano di Seymour Hoffmann

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primo piano di Joaquin Phoenix

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l’uso dei led a striscia per illuminare le riprese sul ponte della nave. I leds erano raccolti in pannelli dotati di calamite che potevano vessere senza difficoltà attacati alle strutture metalliche della nave

Una delle scene che Malamare ricorda con piacere è questa che vedete sotto, originariamente rimossa dal piano di produzione e poi all’ultimo momento reinserita dal regista. Ricorda il direttore di fotografia “Abbiamo dovuto illuminare realmente velocemente alla fine di una lunga giornata. Ho usato solo due luci, un 2000 Blonde open face (NDR una luce molto povera, senza lente di fresnel davanti) fuori dalla finestra (ovviamente gelatinato NDR) e poi un dedo light da 100 watts (una piccola luce fresnel molto direzionabile … è visibile l’effetto sul profilo dell’attore sdraiato, lo stacca impercettibilemnte dal buio retrostante) su Joaquin (Phoenix) per tirarlo un pò su. Il pigiama di Amy era molto riflettente, abbiamo avuto un bello schiarimento … E’ strano pensare come uno può illuminare una scena con sole due luci e farla sembrare molto “stilizzata” e poi invece utilizzare 20 punti luce e cercare di farli sembrare luce ambiente.” Bella questa osservazione, illumina un pò il senso del lavoro sull’immagine che viene compiuto dietro le quinte.

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la scena illuminata con sole due luci così come descritta sopra…

Mihai Mlamare tiene a ricordare sul suo sito che rimane sempre uno “still photographer”, cioè un fotografo (contrapposto al “cinematographer” cioè il direttore di fotografia). Qui sotto una foto dal suo album “rumeno”:

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dal sito di Malaimare: http://www.malaimarejr.com/

Viaggiare con la luce

Vera Lutter, Zeppelin Friedrichshafen, I: August 10–13, 1999, unique silver gelatin print, 55 x 81”. Courtesy of the artist and Gagosian Gallery, New York.

Vera Lutter, Zeppelin Friedrichshafen, I : 10-13 agosto 1999, stampa alla gelatina d’argento, copia unica, cm 140 x 200. Copyright dell’artista e della Gagosian Gallery, New York.

Qualche volta penso alle foto che sono create con metodi non convenzionali, senza macchina fotografica intesa in senso classico. Ho creato un “board” su Pinterest dove chi fosse interessato può spillare foto che rientrino nel tema. Di recente ho avuto modo di vedere alcune stampe a tiratura unica di Vera Lutter, nello stand della Gagosian Gallery durante ParisPhoto 2012… sono una impressionante riflessione sull’uso “estremista” della fotografia analogica. La Lutter usa camere oscure giganti (affitta spesso dei containers) e fotografa attraverso un foro stenopeico, direttamente sulla carta B/N, ottenendo quindi immagini negative e rovesciate perchè non utilizza il classico processo negativo/positivo. Cercando notizie sull’artista ho trovato questa bella intervista di Peter Wollen all’artista sul sito “The Bomb” di cui traduco qualche passo:

PW come scegli i soggetti da fotografare ? ci sono grattacieli, porti, moli, ponti e tutto ciò che li accompagna.. ci sono fabbriche … queste categorie sembrano dominare

VL i siti industriali mi interessano enormememente, sia quelli pienamenti operativi (…) sia quelli che hanno già passato i loro anni migliori e stanno crollando a pezzi o andando in decadenza, entrando in una seconda vita. La decadenza segna comunque un nuovo sviluppo. (…) Nonostante il gran parlare che si fa sulla globalizzazione, sono interessata al fatto che la gente e le merci vengano mosse da una parte all’altra in maniera fisica, massiccia e direi anche maldestra. Così ho esplorato i mezzi di trasporto – navi, treni, Zeppelins, oleodotti, aereoplani – (…) mettendo in relazione il trasferimento delle merci con quell della luce nella macchina fotografica. Il vuoto consente lo scambio e/o il trasferimento. Spazi vuoti caricano la gente e la portano da qualche parte. Il vuoto nella camera oscura consente alla luce di entrare e trasferirsi. Così mi interessa studiare queste cose per mezzo della camera oscura. E, per coincidenza, adesso utilizzo spesso dei containers, che affitto

PW come macchina fotografica ?

VL si, come all’inizio occupavo una stanza e la trasfromavo in camera oscura per fotografare l’architettura

PW se il soggetto è grande anche la macchina fotografica dev’essere grande? O non è così semplice ?

VL non è così semplice: cambiando la lunghezza focale, che nel mio caso è la distanza tra il foro stenopeico e la carta sensibile, posso variare le dimensioni dell’immagine. L’industria fotografica fabbrica la carta in rotoli di una certa larghezza, ed io metto insieme le strisce per raggiungere una dimensione che coincida con la mia idea.

PW Quanto misurano i fogli ?

VL sono larghi 56 pollici (circa 142 cm) e variano tra 90 e 110 pollici di lunghezza (tra 230 e 280 centimetri). se metto tre strisce una accanto all’altro fanno quasi 5 metri di larghezza. E’ diventata per me una misura standard. Un container può a malapena accogliere un immagine di questa misura.

(…)

PWAdesso parliamo un attimo del movimento. Guardando le immagini, non sono sicuro se tutto sembra fermo perchè tutto ciò che fotografavi era immobile, oppure le cose si muovevano ed erano immobilizzate dallo scatto ?

VL Il movimento è in relazione alla quantità di luce nell’ambiente che sto fotografando. Il movimento si registra o come una strisciata oppure come immagine fantasma. Per esempio, ho fotografato alcuni Zeppelin dentro un hangar dove avevano di recente ripreso a costruirli. E’ stata anche la prima volta che ho usato un container come camera oscura. Ho piazzato il container nell’hangar, fatto qualche test ed ho capito che il mio tempo di esposizione sarebbe stato 4 giorni. Lo Zeppelin era ancora in prova ed un giorno, mentre stavo esponendo, l’Azienda decise di tirarlo fuori per una prova di volo. Durante i 4 giorni di esposizione lo Zeppelin ha volato per due giorni, mentre per due giorni è rimasto parcheggiato di fronte alla mia camera oscura. Era buio dentro il capannone, e per questo le cose si registravano lentamente. Il risultato è stato questa incredibile immagine del dirigibile translucido, perchè è per metà dirigibile e per metà sfondo (è la foto all’inizio di qusto post NDR).

La sua ultima mostra è stata a Nîmes (Francia), Carré d’Art (il Museo di Arte Contemporanea) nel settembre 2012.

Vera Lutter, 545 8th Avenue, looking North: February 10, 1994, unique silver gelatin print, 66 x 42”. Courtesy of the artist and Gagosian Gallery, New York.

Vera Lutter, 545 8th Avenue, looking North: 10 febbraio 1994 – stampa alla gelatina d’argento, copia unica, cm 105 x 165. Copyright dell’artista e della Gagosian Gallery, New York.

Fuori tempo

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Henri Cartier-Bresson – Hyeres

Isabelle Le Minh – dalla serie “trop tôt, trop tard”

L’esplorazione (un’intera giornata !) di Paris-Photo 2012 è stata per me una vera miniera di stimoli e riflessioni. Una autrice francese mi ha colpito subito, all’inizio della visita, il 18 novembre scorso. Isabelle Le Minh (classe 1965) si potrebbe definire una artista concettuale. Nella serie esposta dalla Galleria Cristophe Gaillard (Trop tôt, trop tard” – after Henry Cartier-Bresson – 2008) ha lavorato su alcuni testi classici della fotografie, le immagini di Cartier Bresson, destrutturandone la componente temporale: infatti il famoso “istante decisivo” viene cancellato da un paziente lavoro di fotoritocco. Il progetto è stato sostenuto dalla fondazione HCB che tutela il patrimonio iconografico dell’autore. Le immagini sono state presentate come stampe Fine Art (in francese: stampe agli inchiostri pigmentati), formato A2 su carta baritata, tiratura e presso non esposti. Scrive Le Minh: ” Henri Cartier bresson è stato un modello per molti che si avvicinavano alla fotografia verso la fine degli anni ’80, per i quali il rispetto di alcune regole quali l’ “istante decisivo”, la composizione bilanciata e il bordo nero sulla stampa (prova che la foto non era stata “re-inquadrata”) erano garanzie di riuscita dell’immagine. Dal momento che Photoshop consente, con l’utilizzo di alcuni strumenti (ad esempio “toppa” oppure “pennello correttivo” NDR), di recuperare molte imperfezioni e di ricomporre l’immagine secondo le proprie preferenze, potrebbe sembrare obsoleto approcciare la fotografia seguendo questo tipo di regole. Quasi per fornirne una dimostrazione al contrario ho pensato di cancellare tutto ciò che attesta il “momento decisivo” da una selezione di sue fotografie. Ho anche scelto una presentazione il più possibile simile a quella della stampa originale. (…) . Instaurando un nuovo rapporto con il tempo, il risultato mostra una lettura inedita delle sue opere: mette in evidenza una scelta di configurazioni topografiche legate alla scelta di punti di vista molto particolari (così si spiegano anche le masse enormi formate dalle ombre) e sottolinea la geometria della composizione. Si racconta così anche qualcosa dell’universo del fotografo, si può immaginare il suo errare alla ricerca di un luogo ideale dove appostarsi in attesa del momento propizio ad azionare l’otturatore. L’universo di Cartier-Bresson così ricostruito sprigiona, mi sembra, una strana sensazione di solitudine”. Dopo aver visto la “destrutturazione” sono tornato a guardare le foto di Henri Cartier-Bresson (talmente note che alla fine non si guardano neanche più con attenzione) con occhi completametne diversi. Mi sembra un bel caso di uso del Photoshop con finalità di studio. Arte concettuale che ci spiazza, ci porta a considerare un pre-testo fotografico che viene ricostruito grazie alla tecnologia digitale.

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a sinistra la foto originale di HCB, a destra la destrutturazione operata da Isabelle Le Minh rimuovendo l’istante decisivo

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Paris Photo 2012

Basta che paghino

foto di Zack Arias

… traduco questo interessante post dal blog del fotografo americano Zack Arias; in questo testo Arias dà dei consigli ad un giovane fotografo che non sa “come parlare di soldi” ad un potenziale Cliente. Ovviamente si parla di una realtà distante (gli Stati Unitit) ma trovo che molte osservazioni si potrebbero tranquillamente riferire anche alla nostra realtà…Un’altra doverosa premessa è che questo tipo di ragionamento è ovviamente nell’interesse del fotografo, ma anche di quello del Cliente che spesso si illude di risparmiare ma alla fine non ottiene delle fotografie funzionali alle sue esigenze di comunicazione.

“Domanda: Un parrucchiere mi ha chiesto di fare qualche foto e di dargli i files per poterli stampare ed appendere . Non ha menzionato il fatto di dovermi pagare…. come dovrei fare ? dovrei curare la stampa io stesso oppure dargli i files ? Vorrei il tuo parere …

Risposta: ti piace ciò che vedi ? allora paga. Se vuoi essere pagato solleva subito l’argomento: “mi piacerebbe davvero lavorare per te! qual’è il tuo budget ?”. Questo introduce subito l’argomento. L’approccio migliore è cominciare a fare altre domande… Quante persone devo fotografare… i modelli saranno ingaggiati dal cliente o dal fotografo ? Le riprese avverranno nel negozio oppure bisogna trovare un altro posto ? Hanno già un laboratorio di fiducia oppure te ne dovrai occupare tu ? Useranno queste foto anche sui social networks ? che tipo di look hanno in mente ? sarà necessaria attrezzatura supplementare a noleggio  oppure assistenti ? sarà un lavoro “una botta e via” oppure un progetto che andrà avanti nel tempo ? hanno già chi si occupi del trucco ? e la scelta ed il reperimento degli abiti ? Con questo fuoco di sbarramento delle domande  mostrerai che conosci l’argomento e probabilmente solleverai dei punti ai quali loro non avevano mai pensato di avere necessità di approfondire… Qualche volta la gente pensa: “vieni, fai le foto ed appendile ….” questo vuol dire solo prevedere due steps di un prcesso. Fare le foto. Appenderle. Ma tu ed io sappiamo che c’è molto di più di questo. Ad esempio: 1 concordare preventivo ed anticipo  / 2 fatturare l’anticipo / 3 programmare / 4 trovare i modelli / 5 prenotare i modelli / 6 riprogrammare le riprese in base alla disponibilità dei modelli / 7 trovare prenotare trucco ed hair stylist (in questo caso forse solo il trucco ) / 8 trovare un assitente / 9 ingaggiare l’asssitente / pensare allo spazio dove scattare (eventualemnte prevedere spostamento di arredo) / 10 Pulire l’attrezzatura, caricare le batterie / 11 noleggiare attrezzatura se ncessario / 12 arrivare puntuale allo shooting / 13 portare a termine lo shooting / 14 rimettere a posto / 15 smontare l’attrezzatura e riportarla in studio / 16 restituire il noleggiato / 17 Selezione e postproduzione / 18 modifica della selezione in base alle richieste del cliente / 19 stampe di prova / 20 ottenere approvazione delle stampe di prova / 21 ordinare le stampe definitve / 22 fare la fattura al Cliente / 23 montare-allestire le stampe / 24 appenderle nella sede del Cliente / 25 inviare i files definitive al Cliente.  Sicuramente sto dimenticando qualcosa ma non ho ancora preso un sufficente numero di tazze di caffè. Come vedete in tutti questi passaggi lo “scatto” è al numero 13. Il proprietario vuole uno scatto (#13) e vuole appenderlo al muro (#24). Gratis ? Voglio dire, io non sono per principio contro il lavorare gratis, sopratutto all’inizio,  ma sono anche favorevole all’educare il Cliente circa la quantità di lavoro che è necessario. Quando inizi a fare tutte quelle domande loro cominciano a capire che ci sarà molto più lavoro, non solo per te ma anche per loro … Inizia subito questa discussione, non ti girare nel letto a chiederti come essere pagato dopo che l’hai appena data !! (lo so, sono volgare, ma questo rende l’idea …). Se proprio lo vuoi fare gratis cerca di girare direttamente al Cliente quante più spese possibile (…) ricarica sulle stampe … cerca di recuperare un po’ di moneta per il tuo tempo … fatti tagliare i capelli per un anno … insomma cerca di guadagnare qualcosa oltre all’esperienza. (Il post prosegue poi entrando nel dettaglio del calcolo orario in base a vari preventivi possibili : 500,00 d 2.000,00 dollari). (…) Quando ti sei fatto tutti i conti vai avanti fiducioso e chiedi quello ritieni sia giusto. Hai la possibilità di educare i tuoi potenziali Cienti. Improvvisamente Il signor Pincopallino con la sua macchina prosumer e zero esperienza sembrerà una completa nullità al tuo confronto. Perchè dovrebbero scegliere una nullità per fare quel lavoro ? Il tuo Cliente vuole un lavoro e lo vuole fatto bene. Se vogliono troveranno i soldi per pagarti. Succede. Credimi, succede. Quando riesci a far capire al tuo Cliente il valore di quello fai, i soldi li trova.
(…)
un caro saluto – Zack”

(segnalato dal Photoeditor di qualche giorno fa) – Ho ricavato il titolo del post da quello del romanzo di Alessandro Golinelli Basta che paghino, Milano il Saggiatore 2000 (1992)

Attraverso una lente

Jan van der Heyden – il nuovo municipio di Amsterdam, con deformazione “grandangolare” (Galleria degli Uffizi – Firenze) – acquistato nel 1668 da Cosimo de’ Medici… doveva essere guardato da un certo punto di vista per avere una correzione prospettica

la stessa con una correzione prospettica applicata con un vecchio Photoshop

Jan van der Heyden – il nuovo municipio di Amsterdam – (dopo il 1652)- Museo del Louvre – in questa versione l’artista non ha utilizzato la deformazione grandangolare

a proposito dell’importanza di vedere direttamente le opere: queste sono alcune riproduzioni del quadro di van Heyden (versione del Louvre) che girano in rete. Le differenze nella riproduzione del colore sono enormi … Le stesse differenze potrebbero essere osservate accostando quattro cataloghi o monografie stampate in offset…

La bella mostra (Vermeer – il secolo d’oro dell’arte olandese) in corso alle scuderie del Quirinale a Roma (fino al 20 gennaio) mi ha portato ad alcune riflessioni sull’uso dell’ottica nella trasposizioni bidimensionale della realtà, che è poi alla base del processo fotografico. Le opere, quasi tutte senza vetro, erano ben illuminate e potevano essere viste abbastanza da vicino per poterne apprezzare tutti i particolari.  Sono rimasto infatti stupito dalle piccole dimensioni della maggior parte dei dipinti … All’inizio del percorso espositivo un quadro mi ha subito incuriosito, lo vedete qui sopra in alto. Immediatamente la deformazione della cupola in alto a sinistra mi è sembrata familiare: si tratta della classica deformazione prospettica dovuta all’utilizzo di un’ottica grandangolare. L’artista, Jan van der Heyden, era anche uno scienziato ed un inventore, e sicuramente utilizzava la camera oscura e probabilmente anche delle lenti o degli specchi. In un bel catalogo del 2006, Peter C. Sutton (Jan van der Hayden – mostra organizzata dal Bruce Museum – Greenich – Connecticut – USA nel 2006) dedica un intero capitolo (prospettiva, aiuti visivi e camera oscura) all’utilizzo appunto di strumenti ottici da parte di van der Heyden per interpretare la realtà, sopratutto per poterla “comprimere” in spazi ridotti. Interessante anche notare che l’artista non era un eccezionale pittore, non riusciva a rappresentare correttamente le figure umane per le quali spesso di faceva aiutare. Inoltre utilizzava, per riprodurre velocemente i minuti particolari, una specie di “timbri” che gli permetevano di riprodurre velocemente ad esempoio i mattoncini o i particolari della vegetazione (oggi diremmo: un pennello su misura di Photoshop). Insomma era più interessato all’aspetto “geometrico” della visione che non alla riproduzione minuziosa del reale. Aveva la consapevolezza insomma di quanto la visione sia sempre un processo mediato da filtri culturali e dalla tecnologia disponibile al momento. Ovviamente  noi abbiamo adesso una sensibilità particolare per alcuni aspetti di questa “lettura” del reale.  Attraverso i vari quadri (di autori contemporanei di Vermeer) presenti in mostra ho potuto quindi apprezzare “la modernità” (lo so, un termine abusato ma mi riferisco a quanto detto prima) dell’approccio compositivo di molti dei pittori, mediante uso di inquadrature anche “tagliate” oppure la resa dell’illuminazione quasi sempre giustificata da fonti luminose “reali”(in genere finestre) presenti nel dipinto.
Ovviamente la mostra aveva come focus la figura di Vermeer, seppur presente con sole otto opere (a proposito, leggete questo post di Massimo Pulini). Sull’uso della camera oscura da parte dell’artista sono state scritte molte pagine (ad esempio Vermeer’s Camera di Philip Steadman, ad esempio a pg 158) ma ovviamente sarebbe molto limitante descrivere le sue opere come “fotografiche” come spesso si sente dire… Vermeer decide cosa mettere a fuoco e cosa no, e nonostante la perfetta resa prospettica della camera oscura il controllo dell’atmosfera del dipinto è totale, anche mediante l’uso in alcune zone di tinte quasi piatte … la visione dei suoi quadri è spesso “spiazzante”, e la piccola dimensione costringe ad un rapporto ravvicinato per apprezzarne la cura dei dettagli.. è quasi un chinarsi verso una “scatola delle meraviglie”.

Johannes Vermeer – Giovane donna in piedi al virginale (1673)

Stati di grazia

Giacomelli2

Mario Giacomelli – verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Frank Horvat: Ti voglio chiedere una cosa: c’è questa vita che scorre, e questi istanti che valgono tutti la pena di essore vissuti, e queste diecimila o ventimila foto che tu hai fatto, che sono tutte interessanti. Ma poi ce ne sono venti, o trenta, o quaranta, dove c’è qualcosa di più, la grazia. Tra tutte le foto che tu hai fatto all’ospizio c’è questa, che è stata pubblicata dappertutto…

Mario Giacomelli : Sai perchè per me è bella ? Tu vedi la vecchia, l’ospizio. Ma se tu la guardi ancora meglio, non c’è più nè vecchia nè ospizio, è come un mare bianco, come una barca su un’onda. Ma questo è venuto dopo che ho pianto dentro di me una quantità di volte, di fronte ad altre immagini. Non so se questa è più importante, per me sono tutti attimi, come il respiro, quella prima non è più importante di quello dopo, ce ne son tanti, finchè tutto si blocca e tutto finisce. Quante volte abbiamo respirato questa sera ? Nessun respiro era più bello dell’altro e tutti insieme sono la vita. – Frank Horvat, Entre vues, Nathan Image, Paris 1990. pg 104 (ora disponibile in italiano sul sito di Horvat).

Rileggendo il libro ieri ho trovato questo passaggio che mi ha colpito molto. Da sempre ammiro le foto di Giacomelli e quello che racconta del suo rapporto con il suo apparecchio (“non conosco gli apparecchi degli altri (…), so solo che devo impostare la distanza e quell’altra cosa… come si chiama quell’altra cosa ?” oppure “se potessi, farei a meno della macchina fotografica”) me lo ha fatto amare ancora di più… Forse la grazia, lo stato di grazia, è quello che tutti noi cerchiamo quando fotografiamo. Il momento in cui tecnica, occhio, soggetto, magicamente si incastrano… Ascoltate quello che dice Charles Fréger, giovane fotografo (classe 75) ed astro della fotografia contemporanea, fondatore di POC (Piece of Cake), a proposito di questa che è tra le sue foto più note..

Charles Fréger, Water-Polo 3, dalla serie serie “Water-Polo”, 2000

“Questa foto di Etienne, uno dei 12 giocatori si water-polo della serie “Water-polo” è un buon esempio di questo istante in cui ogni cosa va al suo posto. C’è il corpo bianco, lo sfondo complesso, la cuffia, che richiama la pittura fiamminga, la goccia d’acqua.” (intervista di Anne Celine Jaeger in “La Photo contemporaine par ceaux qui la font” Thames and Hudson, Paris, 2007. Per chi avesse la possibilità c’è un workshop a Marsiglia a novembre con l’artista.

Ruggine e ossa

Marion Cotillard protagonista del film

Una fotografia asciutta e moderna, quella di “Un sapore di ruggine e di ossa”, di Jaques Audiard. Il direttore di fotografia Stéphane Fontaine parla del suo lavoro in una bella intervista a AFC Cinema. Il film è stato girato con una macchina fotografica digitale, la RED Epic,  impostata sulla sensibilità di 800 ISO. Significa poter lavorare a livelli di illuminazione molto vicini a quelli cui è sensibile l’occhio umano, con un ridotto parco lampade. Come dice Fontaine, gli esterni sono stati girati solo in luce ambiente con pannelli di schiarimento di tutte le forme. Questo ha permesso agli attori ed al regista una grande libertà di movimento. Potete vedere qui un estratto in alta risoluzione con un bel dialogo tra i due protagonisti.

un bel dialogo dove si può apprezzare il grandissimo lavoro sugli attori del regista Audiard..

Quindi la ripresa digitale non per motivi di budget (sono statie testate la Canon 5D e 7D, l’Arriflex Alexa e due pellicole Kodak), ma per seguire meglio il mood della storia. Il formato RAW ora disponibile anche per le riprese cinematografiche rende possibile il controllo del colore come quando il direttore di fotografia seguiva la filtratura del negativo colore. Qui le tinte sono tutte leggermente desaturate;  mi ha colpito vedere come sono stati resi fotograficamente gli esterni principali, girati in uno dei luoghi più turistici della Francia, Antibes sulla Costa Azzurra… il trattamento fotografico rende questi luoghi assolutamente non “cartolineschi”. Un altro momento che mi ha particolarmente colpito è stata la fuga di Ali da Antibes a Strasbourg, resa in maniera splendida montando la macchina da presa su un automezzo e riprendendo in condizioni di scarsa luminostià (aurora o pioggia)… raramente ho “sentito” le riprese della strada in maniera così viscerale (da vecchio autostoppista, lo confesso)… Anche l’utilizzo del controluce e delle luci in macchina è sapientemente utilizzato per sporcare l’immagine (in maniera completamente diversa da come era stato utilizzato ad esempio in “the tree of life” di Terence Malik) e rendere la ripresa casuale. L’attenzione all’evolversi della storia diventa così totale, non ci sono concessioni “estetiche”.