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La cornice distorta

Kent Klich, dal libro Picture Imperfect. Un album di famiglia stravolto e sconvolgente; Ritchin ne parla nela suo ultimo libro. Il Time lo definisce uno scambio di percezioni alla pari tra il fotografo svedese Kent Klich e Beth R., ex prostituta e tossicodipendente residente a Copenhagen, che Klich ha iniziato a fotografare nel 1980. Nel 2007 è stato pubblicato il libro.
“Le fotografie non sono lì per mostrarci il mondo, ma solo una versione di ciò che sta succedendo” (Fred Ritchin)
In fondo la “fotografia che racconta” è stata davvero fondamentale per la storia della fotografia e anche per capire la storia “tout court”. Una fotografia spesso è in grado di darci informazioni ed emozioni insieme, e aiuta a mantenere i legami con il nostro passato prossimo. C’è anche una fortissima valenza politica: spesso una fotografia è stata in grado di modificare l’opinione pubblica di grandi paesi come gli Stati Uniti. Le cose stanno cambiando rapidamente e radicalmente, come sappiamo; mi ha molto stimolato la lettura di una bella intervista di qualche giorno fa, su “Mother Jones“, al noto teorico della fotografia Fred Ritchin, a proposito del suo ultimo libro. “Bending the frame: Photojournalism, Documentary, and the Citizien” – curvare, storcere la cornice: fotogiornalismo, documentazione e cittadinanza – (vedi anche la recensione sul Time). Qualche tempo fa avevamo segnalato sulla nostra pagina Facebook la vicenda del Chicago Sun-Time che ha licenziato in tronco tutti i fotografi e photo-editor del giornale (28 persone) per tagliare i costi, affidando la realizzazione di foto e video ai giornalisti. L’intervista a Ritchin prende le mosse da questo fatto recente. Ne traduco qualche passaggio che mi ha particolarmente colpito. Le foto che illustrano il post sono di un fotografo citato da Richin nel suo saggio, lo svedese Kent Klich.
Può il fotogiornalismo sopravvivere nell’era di Instagram ?
Mother Jones: cosa significa il recente licenziamento al Chicago Sun-Time per i fotogiornalisti ?
Fred Ritchin (…) C’è una enorme richiesta di professionisti che sappiano raccontare le loro storie con un piglio narrativo e capacità di cogliere sfumature, che lavorino in manera “attiva” e non solo “re-attiva”, e che abbiano un approccio dalle molte sfaccettature. Ci servono fotografi più “utili”. Dati i recenti budgets destinati al giornalismo, penso che ci saranno altri licenziamenti nel prossimo futuro. Ma certamente spero che molti giornalisti visuali (visual journalists) saranno impiegati o finanziati.
(…)
MJ: L’etica del giornalismo è cambiata nell’epoca dello smartphone ?
FR: Il fotogiornalismo è diventato una attività ibrida di amatori e professionisti, fotocamere di sorveglianza, Google Street View, ed altre fonti ancora. Forse sono in numero insufficente quei “metafotografi” (“metaphotographers”) che possono dare un senso a milioni di immagini che vengono realizzate, inserirle in un contesto e verificarne l’autenticità. Abbiamo bisogno di editors che possano filtrare questa sovrabbondanza più che di nuove legioni di fotografi. L’etica sicuramente è cambiata, per rispondere alla sua domanda: molti che fotografano con gli smartphone sono parti in causa con forti interessi in quello che stanno fotografando. In qualche modo questo rende il loro lavoro più onesto e più facile da leggere – possono anche manipolare, ma anche i professionisti possono farlo naturalmente.
(…)
MJ: Come Photo-editor di riviste, cosa valuta in una foto ? Qual’è il peso dell’estetica rispetto al bisogno di illustrare o informare ?
FR: La fotografia richiede l’attenzione di chi la osserva, spesso in maniera implicita, ponendo interrogativi sulla natura di quello che viene raffigurato. Le fotografie non sono lì per mostrarci il mondo, ma solo una versione di ciò che sta succedendo. La situazione ideale è quella in cui il lettore è abbastanza motivato per impegnarsi attivamente nello stabilire il significato di una raffigurazione.
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