La foto più bella
Dal racconto “Roma” di Goffredo Parise, (Sillabari – Adelphi 2004)
“Uscì dalla stazione per prendere un tassì, e a mano a mano che il crepuscolo si trasformava lentissimamente in sera, si trovò sul Piazzale. La luce del cielo si fondeva con quella del grande faro centrale ed era qua e là spezzata di riverberi di neon rosa e azzurro. (…) La luce del crepuscolo scendeva lentamente ma ad ogni istante si notava una variazione di colore, sempre più verso l’ ombra, in cui, più lontano, le sagome goffe di alcuni soldati italiani e di altri etiopi dai capelli crespi a criniera, in gruppi separati, già avevano assorbito per primi l’ ombra della notte: la luce che li illuminava era un rimasuglio violaceo ma i loro corpi di lunghi guerrieri senza lancia parevano camminare con l’ andatura di cammelli tra i ciuffi delle savane dei loro paesi. Ancora non era buio e si sarebbe detto che quella luce violacea non avrebbe abbandonato la città per tutta la notte.”
Qual è la foto più bella che hai mai realizzato?” “Quella che non ho ancora fatto!”
Questo scambio di battute riferite ad un’ intervista a qualche fotografo, può sembrare superficiale; quella che può sembrare una risposta un po’ leziosa ha tuttavia un fondamento di verità. Come nel paradosso di Achille e la tartaruga, il fotografo insegue la foto perfetta che però, spesso non riesce ad raggiungere perchè questa gli si presenta sempre dopo il suo ultimo scatto. Una fotografia è anche frutto del caso, delle circostanze, forse della fortuna; non sempre la pazienza, la tecnica o il mestiere sono condizioni sufficienti; la “foto più bella mai realizzata” è quindi l’ insieme di tanti fattori, alcuni imponderabili, che quindi in una certa misura sfuggono al nostro controllo. Che forse si presenteranno quando non saremo pronti. Chi di noi non ha mai avuto la sensazione, nel riporre la macchina fotografica, di farlo troppo presto? Magari un passante sta per attraversare la nostra inquadratura, le nuvole stanno per aprirsi e ci sarà un lampo di luce caravaggesca, o semplicemente potremmo incrociare uno sguardo, ma tutto questo potrebbe succedere subito dopo aver chiuso la zip della nostra borsa. Memori di quanto diceva Cartier Bresson, che “il numero degli scatti è decisivo”, si vedono spesso fotografi che continuano ad imperversare rapaci sulla scena, quasi in preda ad una sorta di avidità, nel timore e nell’ auspicio, appunto, che lo scatto successivo possa essere migliore del precedente. Anche io non mi sottraggo a questa sorta di frenesia, mi capita quando magari di fronte ad una bella luce, un tramonto ad esempio, continuo a fotografare perchè la luce è in costante evoluzione e non voglio perderne alcuna sfumatura, fino alla fine. A proposito di tramonti, mi è venuto in mente un racconto di Goffredo Parise, “Roma” (in Sillabari), che ho messo in apertura di questo post. Come detto prima, non sempre si può trasmettere con una fotografia la propria esperienza nella sua interezza, perchè la foto è frutto di una serie di fattori, alcuni dei quali fuori dal nostro diretto controllo. Per questo il racconto di uno scrittore può in alcuni casi essere più accurato di una fotografia dove ad esempio, per citare solo un aspetto del problema, le difficoltà tecniche possono vanificare l’ efficacia della narrazione. Secondo me la fotografia è nata e si è sviluppata proprio a beneficio dello spettatore, che non potendo raffrontarla con la scena originale, probabilmente la sopravvaluta. Chi invece l’ ha realizzata, con la zavorra della propria memoria, probabilmente vi trova dei difetti perchè il ricordo può essere più forte della registrazione digitale. La foto più più bella che abbia mai realizzato? Non l’ ho ancora realizzata ma ho dei ricordi bellissimi che purtroppo non posso condividere con nessuno.

dal sito http://www.goffredoparise.it